top of page
Search
  • Writer's picturebioMIMESIS design

Cellule mobili e campus ecologici: dall’esperienza degli aborigeni una nuova idea di comunità

Updated: Mar 5, 2021

Il progetto “freeDome - NextGeneration office-home” nasce dall’incontro con la cultura seminomade e si trasforma in un sistema di vita sostenibile per i giovani, e di rigenerazione urbana e territoriale, applicabile anche in Italia.


Serena Fiorelli

https://www.repubblica.it/green-and-blue/2021/02/19/news/cellule_mobili_e_campus_ecologici_dall_esperienza_degli_aborigeni_una_nuova_idea_di_comunita_-287975314/


The more you know, the less you need.” “Più sai, di meno hai bisogno”, recita un antico proverbio aborigeno. Gli indigeni australiani erano uomini liberi. Alcuni seminomadi. I loro villaggi perfettamente integrati. Le loro comunità resilienti. Simbiotiche. Ho sempre saputo ci fosse molto da imparare da loro. Dieci anni fa decido di partire per l’Australia per sporcarmi con quella terra dall’ocra al rosso che avevo sempre immaginato. E proprio in quella terra nasce “freeDOME”, una visione di “vita sostenibile” improntata sulla liberta’ di movimento, di connessione e di condivisione, che negli ultimi cinque anni ha preso sempre piu’ forma tra l’Italia e l’Australia. L’ Italia perché è un progetto di mobilità, che si ispira alla qualità del design, alla tecnologia e all’ innovazione del made in Italy; l’Australia, perché la cultura aborigena semi-nomade, il loro rapporto con la terra e il territorio selvaggio esteso, favoriscono perfettamente l'ipotesi di nuove forme di “comunità semi-nomadi e resilienti”. Italia e Australia anche perche’ credo ci siano aspetti culturali comuni tra i nativi di questi due Paesi: l’importanza della grande famiglia o comunità, il valore degli anziani o gli “elders”, con i loro racconti “gli storytelling” attorno al fuoco, le tante lingue, tradizioni e rituali, ma soprattutto, il loro rapporto viscerale con la terra. Gli stessi valori su cui si fonda il progetto “freeDOME”.

Il progetto freeDOME nasce dall’esperienza diretta con la cultura aborigena seminomade, dallo studio della biodiversità dei loro territori selvaggi, delle piante native, della terra rossa, e soprattutto dell’ecosistema delle loro comunità, che è anche fatto dalla loro cultura, tradizione, dalla loro storia sofferta. In occidente la parola resilienza e’ ormai diventato un trend. Ma non credo si possa parlare di resilienza senza conoscere la vera storia degli indigeni australiani, una delle civiltà più resilienti di sempre. Alla domanda su quale sia il “segreto” della loro grande capacità di resilienza, credo che l’unica risposta possibile sia: LA COMUNITA’. Osservandoli sia singolarmente che in gruppo, durante le loro cerimonie, nei loro villaggi, salta agli occhi il livello di integrazione tra di loro e la forte simbiosi con tutto ciò che li circonda in natura.


La struttura sociale e l'economia aborigena tradizionali erano molto più complesse di quanto si pensi e di quanto sia stato descritto, con villaggi finemente costruiti fatti con cupole o capanne “hut-dome”, con metodi di raccolta e conservazione dei semi, sistemi di acquacoltura con trappole per pesci, tutto progettato in modo perfettamente integrato con il territorio. L’organizzazione sociale delle comunità aborigene era strutturata in clan, all’interno dei quali era importante dividere le responsabilità in modo efficiente, per far sì che ogni persona potesse essere produttiva per la vita del clan stesso.


Anche nelle comunità di insetti gli entomologi riconoscono che, anche se gli individui da soli possono eseguire routine molto semplici, quando lavorano in gruppo, sono capaci di complesse azioni collettive, e che il loro successo e la loro presenza quasi ovunque nell'ecosfera dipendono da tre caratteristiche principali: la flessibilità (la capacità della colonia di adattarsi a un ambiente in evoluzione); la robustezza (la capacità di riorganizzarsi anche quando uno o più individui falliscono); l’auto-organizzazione (gli individui sono tutti responsabili del loro lavoro e del successo del gruppo)”. Sia le organizzazioni biologiche, sia quelle culturali più longeve, dimostrano dunque che la resilienza è dovuta in gran parte alla vita in comunità, cosa che richiede una maggiore capacità intellettuale rispetto alla scelta di condurre una vita solitaria e isolata, presentando molti più vantaggi per costruire strutture solide, e favorirne l’evoluzione.

Lo studio di discipline come la permacultura, la biofilia e la biomimetica, ma anche la biologia e l’entomologia, mi hanno aiutato a capire cos’è l’eusocialità, come funziona un ecosistema e come possiamo imparare a collaborare con esso, fino ad arrivare ad immaginare soluzioni innovative o di ambienti sostenibili dove gli esseri umani possano vivere in armonia tra loro con la natura come indigeni facevano in passato. Da questi insegnamenti nasce l’idea di un modello diverso di comunità, “freeDOME”: campus biofilici collegati in rete, multidisciplinari e multiculturali, dove persone con abilità, cultura e potenzialità diverse possono imparare a coesistere, collaborare e co-creare in simbiosi con la natura.

Il progetto freeDOME si e’ sviluppato attraverso anni di esperienze e di ricerca sia sul campo che professionale. Grazie a un Phd intrapreso all’Universita’ di Tecnologia di Sydney, alla connessione con architetti australiani come John Hamilton Doyle e Glenn Murcutt (pritzker prize 2002) e all’amicizia con l’antropologo esperto di comunità aborigene Michael Leigh, ho avuto il privilegio di essere accolta in uno degli insediamenti umani probabilmente più antichi al mondo, nel Western Victoria. Qui si trova uno dei più grandi e antichi sistemi di acquacoltura, costruito circa 6.600 anni fa. Il lago Condah si è formato da un'antica eruzione di lava dal vulcano Budj Bim, e il popolo Gunditjmara, tradizionale custode della terra, usò con ingegno e sapienza la roccia vulcanica non solo per costruire trappole per pesci, sbarramenti e stagni, ma anche per sviluppare un villaggio per poche migliaia di persone, utilizzando le stesse pietre laviche come collegamento e basamento delle capanne (le ‘hut’, realizzate con archi di legno, terra compatta, e rivestite di rami e foglie di tea tree). Il lago Condah è stato quindi una delle maggiori risorse per la comunità dei Gunditjmara: ha fornito loro cibo, riparo, commercio, ovvero una base economica e sociale per molti millenni. Lo scorso anno, dopo essere stato restituito dal governo ai suoi proprietari originali, Budj Bim Cultural Landscape è stato ufficialmente inserito nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. Una grande rivincita per il popolo Gunditjmara, il cui

sterminio iniziò con lo sbarco degli inglesi nel 1834 a Portland, vicino a quelle terre.

Esattamente un anno fa mi sono messa in viaggio partendo da Sydney, e sono arrivata a Portland, nel sud Victoria, subito dopo gli incendi devastanti dell’anno scorso. E’ stato surreale attraversare quei boschi dove l’ocra e il rosso della terra indigena si alternavano al nero della brace, proprio come nella bandiera Aborigena che rappresenta il simbolo della loro lotta per il diritto alla terra. Ricordo ancora a Budji Bim Cultural Park l’odore acre del legno bruciato. E la fuliggine sulle pietre vulcaniche che piu’ di 6000 anni fa formavano la base delle capanne del villaggio aborigeno. I tronchi bruciati di alcuni alberi secolari riportavano alla luce tracce di grasso delle anguille che migliaia di anni prima venivano appese prima di essere affumicate e conservate. Molti ruderi in frantumi con le scritte “stolen”, rimandano alla tragedia dei bambini che venivano sradicati dalle braccia dei genitori per essere affidati dai generali britannici alle famiglie bianche: la “stolen generation”, un capitolo che dalla storia di queste terre e persone non sara’ mai cancellato. . Quella notte a Budji Bim ho avuto la fortuna di pescare tra le trappole di anguille del Lago Condah con alcuni nativi, con le loro lance a cuneo, come facevano 50.000 anni fa, e li ho capito cosa intendono gli uomini tribali quando parlano di equilibrio armonioso dei sensi. Il progetto freeDOME e’ diventato lo strumento con cui condividere questa esperienza di liberta’ e conessione e renderla replicabile.


Attraverso il concetto senza tempo di “Dreaming”, gli Aborigeni sostengono che il mondo intero sia stato creato dai loro antenati, i fiumi, i torrenti, le pozze d'acqua la terra, le colline, le rocce, le piante e gli animali. Credono che gli Spiriti abbiano dato loro gli strumenti di caccia e a ogni tribù la sua terra, i loro totem e il loro sogno. La colonizzazione ha reso il sogno più fragile, rendendo molti Aborigeni, sia uomini che donne, deboli, impotenti, sottomessi, come i loro territori. Le atrocità a cui gli essi sono stati sottoposti dai conquistatori britannici non possono e non devono essere cancellate. La loro voce è stata messa a tacere per troppo tempo. Il progetto freeDOME, che vuole definire un nuovo habitat e habitus, dove l’ambiente culturale non è separato da quello naturale (e oggi tecnologico), riparte proprio dal ‘Dreamtime’ - dall’origine - quando, grazie ai punti di riferimento della natura, le tribù sapevano sempre e con precisione dove si trovano e Il territorio entro cui si spostavano è la loro casa.

Potrebbe dunque essere, quello seminomade, un nuovo modello possibile, anche in Italia, assecondando il nostro istinto innato di tribalita’?

Dwelling the land. Abitare la terra”, e’ diventato lo slogan di un viaggio-lavoro nomade quest’estate, sperimentando questo modello attraversando l’Italia, da Torino ad Agrigento andata e ritorno, su una piccola roulotte vintage. Dopo l'esperienza indigena la mia percezione della realta’ e di questo paese e’ cambiata notevolmente. Dei luoghi e soprattutto dei non luoghi, del territorio, del paesaggio, delle persone. Un’esperienza molto piu’ sensoriale.


Dallo studio di realtà che vanno dal Piemonte alla Sicilia, è nata il 22 dicembre scorso, bioMIMESIS design, una startup innovativa e benefit che attraverso il progetto "freeDOME, riabitare la terra tra seminomadismo e campus biofilici", mira a creare un ponte tra civiltà antiche e future definendo un modello di comunità che riduca l'impatto ambientale dell'uomo e produca più diversità, sia biologica che culturale, per un futuro più sostenibile. Un modello che favorisca uno stile di vita-lavoro seminomade per riconnettersi con i territori, le persone e i ritmi della natura.

Per farlo e’ necessario combattere l’antropocene, nel quale l’uomo ha impostato la societa’ su gerarchie e distruzione, educando una nuova generazione di giovani a vivere liberi e lavorare in simbiosi con la natura costruendo una nuova forte connessione emotiva con la Terra: la generazione Symbiocene (S) (dal filosofo australiano Glenn Albrechtche). A loro, ragazzi e giovani adulti tra i 15 e 40 anni soprattutto, si rivolge freeDOME promuovendo cambiamenti nei comportamenti sociali delle prossime generazioni nei confronti del territorio e dell'ambiente.


A tale scopo, la soluzione proposta opera su due fronti:


1) Attraverso lo sviluppo cellula abitativa mobile autosufficiente di ultima generazione (“freeDOME biophilic Pod”, o bioPOD): il primo tecno-rifugio biomorfico e biomimetico, multifunzionale e interconnettivo, ispirato ai dome primordiali indigeni e alla struttura di alcuni insetti, specialmente dei coleotteri, sfruttandone anche le proprietà di flessione e gli spettacolari colori strutturali delle ali. Pensati nel rispetto delle normative e in risposta alle esigenze post-covid, i bioPOD, funzioneranno come una soluzione intelligente per l'alloggio, i viaggi, lo studio e il lavoro, facilitando la mobilità e l'integrazione sostenibile fra persone, habitat naturali e umani.

2) Attraverso la selezione strategica, la rivitalizzazione e la messa in rete di zone urbane, suburbane o rurali altrimenti abbandonate o sottoutilizzate, come campus ecologici e collaborativi (“freeDOME biophilic Campus”), ispirati ai modelli resilienti dei villaggi indigeni e delle comunità di insetti sociali. I bioCampus sono studiati per consentire ai giovani stili di vita piu’ connettivi, dinamici e flessibili, contribuendo contemporaneamente alla salvaguardia e rigenerazione ecologica e sociale di queste aree neglette. Concepiti per ospitare i bioPOD, saranno connessi attraverso una rete sia reale che virtuale e si distingueranno per la loro elevata connettività, accessibilità e caratteristiche eco compatibili.


Attraverso questo sistema si intende influenzare un cambiamento del comportamento sociale, diffondendo un modello mentale in cui non si separa la cultura umana dal mondo naturale, come se fossero due entità diverse, ma anzi se ne favorisce la convivenza, imparando dall’insegnamento aborigeno di “Vivere con la Terra, non di essa”.

Sul modello delle comunità resilienti degli indigeni e degli insetti, reinterpretati in chiave moderna, i campus biofilici rappresentano comunità simbiotiche fondate su tre principi fondamentali di resilienza: flessibilità, robustezza e auto-organizzazione. Gli stessi principi che governano le comunità indigene da oltre 50.000 anni e il mondo naturale da miliardi di anni. Probabilmente, per diventare veramente resilienti, è necessario fare un passo indietro, imparare a semplificare i nostri habitus e habitat eprogredire con soluzioni più intelligenti. Perché solo imparando la lezione dalla natura possiamo creare un mondo più sostenibile, connesso e resiliente, come facevano una volta gli indigeni australiani.

Questo è il nostro impegno e la nostra visione per contribuire al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile definiti dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, nonche’ gli obiettivi del programma NextGenerationEU, volti a rendere l'Europa post Covid-19 più verde, più digitale, più resiliente e più adatta alle sfide attuali e future.

https://www.repubblica.it/green-and-blue/2021/02/19/news/cellule_mobili_e_campus_ecologici_dall_esperienza_degli_aborigeni_una_nuova_idea_di_comunita_-287975314/


194 views0 comments

Recent Posts

See All
bottom of page